Una raccolta esaustiva di tutti i miti da sfatare sugli psicologi e la psicologia potrebbe comprenderne ben più di sette…
In questo elenco, ho cercato di selezionare i più diffusi e resistenti.
Per intenderci, quei luoghi comuni che allontanano l’utenza dagli studi degli psicologi e quelli che è necessario “ristrutturare” nei pazienti prima di iniziare qualsiasi lavoro terapeutico.
1- “Le cure psicologiche sono care”
Il costo che un colloquio psicologico può avere è piuttosto variabile.
Il D.L. 4/7/2006 n. 233 c.d. (Decreto Bersani) ha abolito la tariffa minima per le prestazioni psicologiche.
Gli ordini regionali degli psicologi forniscono comunque delle indicazioni orientative sui costi delle prestazioni psicologiche. Alla voce “seduta di consulenza e/o sostegno psicologico individuale” corrisponde una tariffa minima di 35 euro e massima di 115.
Dunque, Il costo di 3 o 4 sedute al mese non è certamente una spesa da sottovalutare, questo è evidente.
Se qualcuno però ci chiedesse quale valore economico possiamo dare alla soluzione di un problema che ci fa soffrire, all’acquisizione della capacità di godere pienamente di un momento piacevole ,alla capacità di prendere una decisione che rimandiamo da molto tempo, all’acquisizione della capacità di “volersi più bene”, cosa gli risponderemmo?
Quale valore monetario ha stare bene con se stessi?
Mi viene in mente la reclame di un noto spot pubblicitario…
Stare bene con se stessi, è evidente, non ha prezzo.
Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che le cure psicologiche non hanno né una durata e neppure un esito prestabiliti. Questo è vero. Altrettanto vero è che, però, alcuni approcci psicologici e psicoterapeutici (come quello cognitivo-comportamentale) prevedono che professionista e paziente stipulino all’inizio del trattamento un “accordo” nel quale vengono chiaramente definitivi obiettivi a lungo termine, obiettivi a breve termine e durata indicativa del trattamento. Obiettivi e durata del trattamento dipendono da molte variabili e, com’è ovvio, possono modificarsi nel corso del tempo ma il fatto di esplicitarli durante i primi incontri dà al paziente una prima importante indicazione di quale “onere” egli sarà tenuto a sostenere impegnandosi in un percorso psicologico.
Se pensiamo a quale fetta dei nostri introiti mensili destiniamo all’acquisto di oggetti e/o servizi che hanno un impatto irrisorio sul nostro benessere forse ci apparirà chiaro che il costo delle cure psicologiche non è poi così insostenibile.
A queste considerazioni aggiungerei che molto spesso le tariffe applicate dai giovani psicologi e psicoterapeuti sono decisamente inferiori rispetto a quelle applicate da professionisti con una certa seniority. Si potrebbe obiettare che questa differenza è sostenuta da una maggiore competenza ed esperienza sul campo da parte dei senior rispetto ai junior. In alcuni casi è cosi. In altri no. Non bisogna dare per scontato che uno psicologo “veterano” e con tanta esperienza faccia certamente al caso nostro e un giovane psicologo motivato ma con qualche anno appena di esperienza certamente non sarà in grado di aiutarci. Cadremmo in un luogo comune, falso esattamente come quello che “le cure psicologiche sono care”…
Tutti gli psicologi, infatti, ricevono un addestramenteo teorico e pratico di durata quadriennale per poter diventare psicoterapeuti. Questo vuol dire che per quattro anni consecutivi, devono prestare servizio di tirocinio guidato all’interno di strutture pubbliche o private in qualità di psicoterapeuti in formazione.
Inoltre non c’è da sottovalutare che un percorso psicoterapeutico rappresenta un processo di cambiamento che si attua anche attraverso l’incontro emotivo di due esseri umani. La sintonia, l’alleanza e la fiducia che può nascere tra esseri umani è decisamente indipendente da un fattore quale l’età del terapeuta.
2- “Una psicoterapia dura anni e anni”
La questione della durata della psicoterapia è una questione aperta e piuttosto dibattuta.
Di certo ogni psicoterapia è diversa dall’altra e la durata di un percorso psicoterapeutico e psicologico dipende da una serie di variabili la cui evoluzione non è possibile determinare a priori (solo per citarne alcuni: la compliance del paziente, la sua storia, la natura del disturbo,il lavoro dello psicologo, la relazione terapeutica e molto altro). E’ utile sapere però che alcuni approcci psicoterapeutici e psicologici, ad esempio quello cognitivo comportamentale, a differenza di altri, hanno per loro natura una durata breve e si prefiggono di raggiungere degli obiettivi concreti in tempi realistici concordati con il paziente.
Quando ci si rivolge ad uno psicologo o ad uno psicoterapeuta, dunque, non è corretto dare per scontato che la durata della terapia sarà inevitabilmente lunga e che, senza dubbio, si rimarrà in terapia per anni.
La variabile tempo è una variabile importante e ogni paziente ha diritto di discuterne approfonditamente con il proprio psicologo o psicoterapeuta in fase iniziale e durante tutto il corso dell’intervento clinico.
3- “Nello studio dello psicologo ci deve essere un lettino”
La vasta filmografia Alleniana ci ha abituati a immaginare lo psicologo come una figura poco “attiva” che, durante il colloquio psicologico, siede alle spalle del paziente, il quale a sua volta è quasi sempre steso su un lettino.
Chi si accinge a entrare per la prima volta nello studio di uno psicologo si aspetta dunque quasi sempre (e forse con una punta di imbarazzo, se non di terrore…) di trovarvi un lettino e che rimarrà per tutto il tempo della seduta a parlare di sé senza poter guardare in faccia il suo interlocutore.
Nella realtà, la stragrande maggioranza dei trattamenti psicologici e psicoterapeutici prevede che i due interlocutori siano seduti uno di fronte all’altro. E’ solo un tipo di intervento (la psicoanalisi, nello specifico) a prevedere che il paziente sia steso su un lettino e che il professionista sia seduto dietro di lui.
4- “Se uno ha bisogno di sfogarsi, non serve che vada dallo psicologo, è sufficiente che parli con un amico”
Questo luogo comune è solo in parte da sfatare. Nei momenti di difficoltà, tutti noi traiamo infinito giovamento dall’avere vicino persone alle quali vogliamo bene e che ci vogliono bene. Confrontarci con persone di cui ci fidiamo e dalle quali ci sentiamo compresi è non solo piacevole ma indiscutibilmente sano.
Il “sollievo” che possiamo trarre da una chiacchierata con una persona a cui vogliamo bene, però, è qualcosa di qualitativamente molto differente rispetto all’intervento di un professionista della salute mentale.
Il professionista, infatti, possiede strumenti definiti dalla ricerca scientifica per identificare quali sono le caratteristiche della nostra sofferenza, cosa l’ha generata e cosa la mantiene in vita. E soprattutto conosce delle specifiche tecniche terapeutiche per metterci nelle condizioni di stare meglio.
Lo psicologo non è semplicemente (o non soltanto) una persona estremamente dotata di buon senso e capace di ascoltare la gente. Lo psicologo è una persona la cui conoscenza della mente umana e di cosa funziona per prevenire e curare uno specifico disagio poggia su basi scientifiche e su evidenze sperimentali.
Sulla base di questa conoscenza, il professionista è in grado di fare qualcosa di qualitativamente diverso rispetto al dare consigli e all’ascoltare empaticamente, come potrebbe fare un amico. Il professionista possiede gli strumenti e le tecniche che la ricerca gli ha messo in mano per guidare il paziente verso la comprensione e la modificazione attiva di quei comportamenti, atteggiamenti, credenze, affetti che possono essere causa della sua sofferenza.
5- “Io sono il miglior psicologo di me stesso”
Anche qui ci troviamo di fronte ad una convinzione diffusa ma solo in parte da rivedere. E’ fuor di dubbio che nella nostra testa ci siamo noi e noi solamente. Qualsiasi professionista della salute mentale non sarà mai in grado di conoscerci e aiutarci se non siamo noi a consentirglielo e a lasciargli la “porta aperta” o almeno socchiusa… In questo senso la frase “io solo posso essere il mio psicologo” ha un senso inequivocabile.
Ci sono momenti, però, in cui è proprio il fatto di “essere nella nostra pelle” e di non riuscire a vederci da fuori che non ci permette di trovare la chiave per risolvere situazioni che ci fanno soffrire. Lo psicologo ha in questo senso una doppia funzione: da un lato ci regala il suo punto di vista su di noi, un punto di vista esterno, imparziale, obiettivo che osserva le cose che ci accadono e così facendo ci permette di esplorare altri modi di vedere e giudicare gli eventi ai quali magari non avevamo pensato. Dall’altro, questo punto di vista imparziale e obiettivo, è un punto di vista supportato dall’esperienza e dalle conoscenze scientifiche. Per fare un esempio, ricordo una seduta durante la quale feci esercitare la fantasia di una mia paziente su quante letture era possibile dare del fatto che il suo capo il giorno prima non l’avesse salutata andando via a fine giornata. Alla sedicesima lettura che la paziente mi diede Le chiesi cosa la portava ad essere così certa che il suo capo non l’avesse salutata prima di andare via perché in realtà la disprezzava, convinzione che lei difendeva strenuamente. La paziente, che aveva impiegato gli ultimi 25 minuti a immaginare mille spiegazioni alternative e più “funzionali” al gesto del suo capo, si accorse che non aveva in effetti nessuna evidenza che le cose stessero così come lei pensava e provò un sollievo estremo all’idea di aver cominciato ad intuire che la realtà non è sempre esattamente come ce la immaginiamo o come temiamo che sia.
E’ davvero curioso come, a volte, il nostro punto di vista sulle cose possa diventare così poco flessibile che si rende necessario che qualcuno dall’esterno ci aiuti, con delle tecniche precise, ad “aprirci” a nuovi modi di vedere la realtà.
La funzione dello psicologo, tra le altre, è anche questa.
6- “Lo psicologo interpreta i sogni”
Esistono differenti orientamenti in psicologia e psicoterapia. Alcuni di questi approcci (quello psicoanalitico, ad esempio) ritengono che i sogni siano manifestazioni o segnali dell’inconscio e, dal momento che l’inconscio è oggetto privilegiato dell’indagine e della psicoterapia psicoanalitica, i sogni sono considerati materiale prezioso da “indagare” e trattare in terapia. Nell’ambito della teoria psicoanalitica, inoltre, non esistono interpretazioni univoche di cosa significhino i sogni. Sognare di volare, per esempio, non significa secondo la teoria psicoanalitica, per tutti la stessa cosa. La psicoanalisi indaga cosa voglia dire sognare di volare per quello specifico paziente e quale significato possa avere quel determinato contenuto onirico in quel determinato momento nella sua vita.
Altri approcci, come ad esempio quello cognitivo comportamentale, ritengono, coerentemente con le scoperte scientifiche recenti nell’ambito delle neuroscienze, che i sogni non rappresentino messaggi dall’inconscio ma siano semplicemente il prodotto notturno dell’attività cerebrale, ovvero l’evidenza che il nostro cervello “lavora” anche mentre dorme. I contenuti di questa attività cerebrale hanno a che fare con la “sedimentazione” delle esperienze vissute durante la giornata più che con “l’inconscio”. Da questo punto di vista, i sogni non sono materiale privilegiato d’indagine psicoterapeutica. Il materiale privilegiato sono dunque le emozioni, le cognizioni e i comportamenti che la persona ha da sveglio, nella sua vita “cosciente”. Un sogno può diventare oggetto d’indagine psicoterapeutica solo nella misura in cui scatena emozioni e cognizioni che il paziente non comprende o non gestisce.
7- “Dallo psicologo ci vanno i matti”
Last but not least, il più diffuso, radicato e resistente dei luoghi comuni sugli psicologi e la psicologia. Per combatterlo servirebbero, tra le altre cose, campagne di sensibilizzazione e informazione su chi è e cosa fa lo psicologo nella realtà. Per sfatare questo falso mito proverei a partire da qualche dato. Un’autorevole studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Progetto ESEMED-WMH) ha stimato nel 2002 che in Italia almeno una persona su cinque abbia sofferto di un disturbo mentale nel corso della sua vita. Questo studio ha preso in considerazione solo alcune classi di disturbi, ovvero i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore e l’abuso/dipendenza da alcol. Lo studio in questione, dunque non ha preso in considerazione tutte le altre classi di disturbi mentali esistenti (tante, per la verità).
Da questi dati si può inferire che a soffrire di un disturbo mentale, indipendentemente dalla gravità del disturbo stesso, sia una percentuale decisamente alta della popolazione italiana. Non tutte queste persone si sono rivolte ad un professionista della salute mentale ma tutte quante , forse, ci hanno pensato.
Possiamo, perché no, decidere di “bollare” tutte queste persone come “matte”. Oppure, forse più saggiamente, potremo tentare di rivedere il nostro concetto di “matto” e provare a pensare alla sofferenza mentale come qualcosa che, nel corso della vita, può accadere a chiunque.
Può accadere a chiunque di soffrire.
Può accadere a chiunque di soffrire e di sentire di aver bisogno di chiedere aiuto.
E non c’è alcun motivo al mondo per sentirsi “matti” se questo aiuto si decide di chiederlo.
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