Negli anni 70 una psicoterapeuta inglese, Robin Norwood, scrisse un saggio sul tema della dipendenza affettiva femminile che le è valso un’enorme popolarità e il merito di aver sottolineato un tema tuttora attuale e caro alla psicologia ma anche alla cultura femminile in genere.
Cosa vuol dire amare troppo?
Amare troppo vuol dire amare a scapito della nostra felicità e del nostro benessere. Vuol dire non riuscire a svincolarci da una storia “tossica”, da una persona che ci fa soffrire, che non ci fa sentire amati ma che, in qualche modo, assume per noi le sembianze e la funzione di una droga, ci fa male e di questo noi siamo coscienti ma non riusciamo a “smettere” di assumerla. Esattamente come una droga, cerchiamo costantemente la nostra “dose” di amore malato e ci sentiamo terrorizzati al pensiero di non averne più per noi.
Essere dipendenti da qualcuno vuole dire non riuscire neppure a immaginarsi senza quel qualcuno, quasi come se l’essenza stessa della persona che soffre di dipendenza patologica fosse legata al suo “essere con l’altro”. La persona dipendente non riesce proprio a immaginare sé stessa, i suoi desideri, i suoi scopi, i suoi bisogni e la sua quotidianità senza l’altro.
Cosa spinge una donna a legarsi a un uomo che la fa soffrire e a non riuscire a uscire da una relazione dolorosa?
Spesso, le pazienti che si rivolgono a noi per risolvere un problema di dipendenza affettiva patologica si spiegano la loro difficoltà a troncare relazioni malate con il fatto che una parte di loro non riesce a smettere di credere che la persona che amano possa cambiare, che possa cessare di fare loro del male e possa finalmente amarle in maniera piena. Questa spiegazione riesce a rendere conto del meccanismo vizioso della dipendenza affettiva solo in parte.
In linea (molto) generale le pazienti che soffrono di dipendenza patologica hanno maturato nel corso della loro storia personale e familiare un’idea di sé stesse in quanto indegne o incapaci di essere amate e accolte veramente per ciò che sono. Queste pazienti hanno spesso alle spalle storie di deprivazione emotiva. Sin da piccole si sono abituate all’idea che nessuno sarà mai in grado o vorrà prendersi cura di loro e che l’unica maniera che hanno per non rimanere sole (non amate ma almeno non sole) è quella di prendersi loro cura di qualcuno. E’ come se queste pazienti avessero internalizzato nel corso della propria vita un copione, un modello, uno schema di come le relazioni a due debbano andare. Questo copione prevede che loro recitino il ruolo della persona che “insegue” l’altro senza mai riuscire a raggiungerlo. Pur essendo doloroso, questo copione è l’unico che le persone che soffrono di dipendenza patologica conoscono ed è proprio per questo motivo che scelgono spontaneamente uomini con i quali riproporre questo copione. Un copione diverso, quello ad esempio di una storia nella quale ci sono due persone che si amano reciprocamente in maniera piena, è un copione sconosciuto e quindi genera ansia.
Come mai capita più di frequente (anche se questa tendenza si sta progressivamente riducendo, a dire il vero) di sentire parlare di dipendenza affettiva al femminile più che al maschile?
Le donne, di ogni cultura e credo religioso, sono “biologicamente predisposte” al sacrificio di sé e all’accudimento della prole. Su questa inclinazione al sacrificio di sé determinata dalla natura si è basata per secoli la tacita accettazione che il sacrificio di sé nelle relazioni con l’altro sesso fosse molto più comprensibile in una donna piuttosto che in un uomo. La donna che rinuncia a sé o a parti di sé per un uomo è molto meglio “digerita” e “digeribile” culturalmente e socialmente rispetto all’uomo che fa la stessa cosa per la sua donna. Oggi le cose si stanno evolvendo e la dipendenza affettiva non è più solo una prerogativa femminile. Tanti uomini soffrono perché si accorgono di “amare troppo”. Nonostante questo l’esperienza clinica suggerisce che quello della dipendenza affettiva sia ancora più un problema femminile che maschile e questo indica che i fattori culturali e l’apprendimento giochino un ruolo chiave nel determinare chi siamo e anche nel determinare di cosa ci “ammaleremo” e per cosa soffriremo.
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