L’altro perfezionismo: perfezionismo sano e perfezionismo patologico

Svolgere un compito in modo preciso e meticoloso è un approccio apprezzabile, che aiuta a non accontentarsi di un risultato approssimativo e superficiale.

C’è però chi va oltre e non si accontenta mai, mettendo in atto una ricerca esasperata e inarrestabile della perfezione. Questo perfezionismo, senza pace e senza limiti, diventa controproducente e patologico.

La differenza tra un atteggiamento sano e uno patologico è sottile e analoga a quella che passa tra il rigore e la rigidità e da una parte riguarda gli obiettivi che ci poniamo (“dare il meglio di noi” verso “realizzare il massimo di tutto, di tutti, di sempre”), dall’altra illumina il rapporto che abbiamo con noi stessi e con il nostro lavoro. Impegnarsi al massimo e dare il meglio è un atteggiamento positivo, che va incoraggiato. Cercare la perfezione a tutti i costi invece rischia di paralizzare, di costituire un limite alla produttività in quanto niente sarà mai abbastanza.

La tensione irrealistica verso una perfezione assoluta riempie di ansia e di senso di inadeguatezza, che a loro volta alimentano la ricerca esasperata della perfezione.

Questo atteggiamento nasce da uno stile educativo intrusivo, ipercritico e intollerante verso gli errori, che porta a riagire nella propria vita quotidiana e nel proprio lavoro questo modello appreso. Non è connesso alla qualità, ma nasconde la paura di sbagliare e di essere malgiudicati.

Quali gli antidoti a questa tendenza malsana?

Fermo restando che il perfezionismo patologico è un fenomeno complesso e radicato nella personalità, cerchiamo di fornire alcuni suggerimenti per evitare gli atteggiamenti più problematici.

Innanzitutto, darsi obiettivi realistici – Le mete, gli obiettivi che ci diamo sul lavoro e nella vita devono essere raggiungibili. Mete impossibili da raggiungere sono garanzia di infelicità.

Non continuare a rimandare  Altra tendenza legata al perfezionismo patologico è la procrastinazione, che spesso nasconde aspirazioni irrealistiche che innescano la tendenza a rimandare proprio per la paura di non farcela, di non raggiungere l’obiettivo prefissato.

Ascoltare le proprie emozioni – Altro punto fondamentale è monitorare le proprie emozioni. Un eccesso di insoddisfazione (quella malata e paralizzante che è alla base di vissuti depressivi, non quella piccola quota sana che costituisce una spinta propulsiva al miglioramento) deve accendere un campanello d’allarme e far riflettere sul proprio atteggiamento. Siamo così concentrati su noi stessi e su quanto siamo o non siamo all’altezza delle nostre gigantesche aspettative da perdere di vista lo scopo del compito che dobbiamo svolgere? Se la risposta è si, è’ il caso di accontentarsi e andare avanti.

In conclusione, per dirla con parole  di John Henry Newman “Un uomo non farebbe nulla se aspettasse a farlo così bene che nessuno possa trovarvi dei difetti”.

 

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